di Marina Miranda
Il presente contributo si focalizza sulle criticità connesse al condurre ricerche scientifiche su temi sensibili relativi alla Cina d’oggi, dando dunque per scontato che le questioni controverse in tale ambito vadano sempre e comunque affrontate – benché non sia purtroppo sempre così.
Sebbene i divieti di trattare tematiche scottanti siano sempre esistiti nel passato recente della RPC, negli anni Novanta, fino agli inizi di quelli Duemila è stato possibile in parte eluderli, grazie al fatto che le maglie stesse della censura erano in qualche modo meno fitte rispetto al periodo attuale. Infatti, la situazione è molto mutata con l’avvento al potere di Xi Jinping, la cui linea politica costituisce un punto di passaggio e di svolta tra un ‘prima’ (yiqian以前) e un ‘dopo’ (yihou以后), anche relativamente alla sua visione per una nuova periodizzazione della storia della RPC.
Pur persistendo nell’orientamento di ben circoscrivere i cosiddetti temi sensibili, Xi Jinping è andato però oltre rispetto ai suoi predecessori, fornendo indicazioni molto più precise e dettagliate sui divieti; la conseguenza è stato un controllo sempre più stretto, oltre che su internet e sui mezzi di informazione, anche sul mondo della ricerca e dell’università. Tali prescrizioni sono state formalizzate in un documento a stretta circolazione interna (neibu内部), emanato a maggio 2013 e relativo a sette argomenti ‘delicati’, che si è raccomandato ai media e al corpo docente delle università di non trattare: ribattezzati come “i sette [punti] di cui non si deve parlare” (qige bu yao jiang 七个不要讲, abbreviato in qi bu jiang 七不讲), essi sono i temi dei valori universali, della società civile, dei diritti dei cittadini, dell’indipendenza del potere giudiziario, della libertà di stampa, del clientelismo dell’élite al potere e dei passati errori del PCC.
È proprio sui settori dell’istruzione e della ricerca che questa stretta ideologica si è fatta sempre più serrata, esercitando su di essi una pressione tra le più forti dal periodo successivo alla strage di Tian’anmen e che ricorda l’intensità di alcune campagne degli anni Ottanta, lanciate dallo schieramento conservatore all’interno del Partito, come quella contro l’inquinamento spirituale e quella contro la liberalizzazione borghese. Se fino ai primi anni Duemila colleghi e studiosi di tendenze liberali si mostravano disponibili a condividere opinioni e risultati delle ricerche anche con gli stranieri, adesso nell’accademia, persino in situazioni informali, vige un clima molto pesante, di vero e proprio terrore e diffidenza.
Rispetto alle chiusure del Continente, un importante canale documentativo è stato rappresentato in passato da Hong Kong, sin dagli anni Cinquanta e Sessanta patria dei cosiddetti China watchers; proprio l’attività di intelligence di questi ultimi conferiva all’ex-colonia britannica un particolare clima di vivacità, caratterizzato però da un’atmosfera di sospetto e di anti-comunismo da Guerra fredda, superato poi dalle generazioni successive di studiosi.
Sebbene dopo il 1997, con il ritorno alla madrepatria, la situazione a Hong Kong iniziasse a modificarsi, la stampa tuttavia continuava a godere di una certa autonomia; vi venivano infatti ancora divulgati materiali inediti, anche neibu, introvabili in Cina continentale. Molti studiosi e intellettuali liberali avevano così la possibilità di pubblicare presso le case editrici indipendenti dell’isola libri interdetti, che poi circolavano segretamente anche nella RPC.
Un mutamento radicale si è verificato poi progressivamente, dopo la soppressione del “movimento degli ombrelli” del 2014 e soprattutto con la repressione delle manifestazioni del 2019, che di fatto hanno decretato la fine del modello “un Paese, due sistemi”. Stampa ed editoria sono ormai sotto una stretta sempre più pressante e non è più possibile per gli stranieri trovare l’accoglienza e la disponibilità di un tempo nelle università e nei centri di ricerca, ora strettamente controllati e presidiati.
Il caso di Hong Kong è emblematico, perché è l’esempio più lampante di come la politica repressiva operata dal Partito-Stato abbia ripercussioni dirette anche sulla nostra attività di ricerca.
Un ulteriore canale ricognitivo è stato costituito da Taiwan, anch’essa importante centro di attività di intelligence a partire dal periodo della Guerra fredda. Fino alla fine degli anni Novanta, organismi governativi, centri di ricerca finanziati dal governo, think-tank sottoposti al Ministero degli Esteri mettevano a disposizione del pubblico, anche straniero, dossier, banche dati, rassegne stampa, materiali e documenti introvabili, custoditi in emeroteche e biblioteche. Nei decenni successivi questa situazione si è modificata progressivamente, alla luce di un peculiare sviluppo politico, in un certo senso di ripiegamento interno, che ha convogliato l’attenzione verso la definizione di un’identità taiwanese, piuttosto che verso la contrapposizione contro il ‘nemico’ al di là dello Stretto. Inoltre, in virtù dell’ammorbidimento delle relazioni con la RPC durante la presidenza Ma Ying-jeou negli anni Duemila e grazie all’avvio di un processo di integrazione economica, al ripristino di collegamenti nelle comunicazioni, nei trasporti, nel turismo, sono stati prodotti risultati molto positivi per la vita della popolazione di entrambi i Paesi; tuttavia, allo stesso tempo, si è generata una sorta di autocensura da parte del governo della RoC: molte attività di intelligence non sono state più finanziate, subendo progressivamente la crescente assertività della RPC, che non è stata più contrastata come in precedenza.
In tale mutata situazione, nel nostro lavoro accademico ci troviamo dunque in forti difficoltà, non tanto per le tesi di laurea, ma soprattutto per quelle di dottorato, per le quali è fondamentale reperire materiali originali e inediti. Oltre che nel campo della ricerca, anche in ambito didattico, a mio avviso, il nostro compito dovrebbe consistere soprattutto nel fornire strumenti interpretativi e critici ai nostri studenti, aiutandoli a decostruire certe narrazioni della propaganda politica. È necessario pertanto far loro comprendere come una determinata terminologia faccia parte di uno specifico gergo politico, che va interpretato alla luce della storia e del diritto internazionale: ad esempio, l’etichetta di “provincia ribelle” non può essere applicata a uno Stato de facto sovrano e indipendente, quale la Repubblica di Cina. Proprio relativamente a ciò, sarebbe utile dare maggior spazio alla storia e all’evoluzione interna di Taiwan nei nostri corsi di storia, incentrati invece prevalentemente sullo sviluppo della RPC.
In conclusione, è opportuno quindi interrogarci sempre più a fondo sui nuovi scenari che si sono ormai delineati, sia ripensando l’impostazione da dare ai nostri insegnamenti, sia riconsiderando come indirizzare adeguatamente le ricerche dei nostri allievi e giovani studiosi.
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