di Federico Roberto Antonelli

L’intervento intende portare un contributo, in questa nuova e delicata fase, su ognuno dei cinque temi al centro della tavola rotonda, nonché sul tema delle sfide che la sinologia italiana potrebbe dover affrontare come conseguenza del processo di internazionalizzazione delle università cinesi in Europa, della mancanza di reciprocità e level playing field negli investimenti diretti nel settore della formazione universitaria e svolgimento di tirocini curricolari tra Italia e Cina.

I.  L’osservatorio italiano appare particolarmente privilegiato (se ‘privilegio’ si può considerare) per misurare il nuovo clima di ‘guerra fredda’ all’interno di un sistema profondamente interconnesso che oggi vivono i rapporti tra la Cina comunista e i paesi liberaldemocratici (occidentali e non), in ambito accademico (e non solo).  

L’Italia è passata in meno di una legislatura da una acritica ‘sinofilia’ ad una altrettanto irrazionale ‘sinofobia’. È appena infatti del marzo 2019 la firma a Roma del “MoU Italia–Cina sulla Via della Seta” che sanciva un rapporto privilegiato con il governo cinese, suscitando sentimenti di preoccupazione nelle principali cancellerie occidentali, ma generando invece in Italia un clima di simpatia e rinnovato interesse per la Cina, i suoi successi economico-sociali e, in alcuni casi, anche per il suo regime politico.

Meno di un anno dopo, complice anche il “virus cinese”, si è passati ad una generale diffidenza, incluso l’ambito accademico, per tutto ciò che rimanda alla Cina e per coloro che di Cina si occupano.

In parallelo a questo processo, tutto italiano, si è assistito ad un atteggiamento del governo cinese sempre più visibilmente autoritario nel settore culturale e accademico, all’interno come all’esterno dei propri confini. Una postura che ha rafforzato le posizioni di chi vede nell’attuale governo cinese una crescente minaccia ai valori fondanti delle nostre società, e, facendo di “tutt’erba un fascio”, gettando sulla sinologia italiana il sospetto di “intelligenza con il nemico”.

Se in altra epoca storica fu l’assedio al quartiere delle legazioni di Pechino l’evento che scatenò nella opinione pubblica internazionale sentimenti razzisti sull’esistenza di un “pericolo giallo”, in questi due anni, complice il “virus cinese”, è montato un crescente clima sinofobico che non ha lasciato indenne il mondo accademico italiano ed europeo.

In questo contesto, oggi più che mai, c’è bisogno a tutti i livelli delle competenze dei sinologi per favorire e migliorare le conoscenze complessive sulla Cina (e più in generale sull’Asia), guidando il discorso con competenza e rigore scientifico e sminando così il terreno da visioni di parte, fondate su una logica di “buoni” e “cattivi”.  I sinologi, che difficilmente possono avere sentimenti ostili verso la Cina, hanno anche la capacità di leggere e interpretare criticamente cosa viene pensato, detto e fatto in Cina. Al contrario, potenzialmente, i pericoli di “intelligenza con il nemico” potrebbero provenire piuttosto da “esperti”, sempre più numerosi, che si improvvisano conoscitori della Cina ma che, per qualche contingente convenienza, sono disposti, più o meno consapevolmente, ad affievolire il proprio senso critico quando si occupano di questioni cinesi.

Come rispondere, dunque, a questa crescente necessità di conoscenza della Cina in un contesto in cui sono affluiti copiosi finanziamenti del governo cinese nel mondo culturale e accademico italiano, minando, secondo molti, la capacità di indipendenza del nostro mondo accademico (non solo della sinologia) e le difese nei confronti del governo cinese; governo che, per diffondere un’immagine del Paese in linea con le proprie visioni e interessi, è ricorso anche alla censura nei confronti di studiosi stranieri non allineati alla sua narrazione ufficiale?

II. Prima di portare un mio personale contributo, vorrei anche io fornire una breve risposta ai cinque temi di riflessione che i promotori di questa tavola rotonda ci hanno voluto proporre.

1. Rispetto alla questione di come elaborare strumenti metodologici utili a garantire un sapere critico sulla Cina occorre, a mio avviso, oggi più che mai, indirizzare sistematicamente gli studenti a lavorare su fonti quanto più possibile diversificate, che includano certo quelle della Cina continentale ma anche di Taiwan, Hong Kong, europee (incluse quelle italiane naturalmente) e statunitensi. Può essere utile inoltre promuovere nello studio della Cina il metodo comparativo, suggerendo di comparare l’oggetto esaminato con il medesimo oggetto in Occidente e/o in altri paesi asiatici; ciò al fine di basare le proprie valutazioni critiche su analisi fattuali e non su narrazioni di parte.

2. Le sempre più numerose costruzioni di propaganda di varia provenienza che ruotano attorno alla Cina comunista, suggeriscono di rafforzare nei nostri studenti un sapere critico che vagli a fondo la provenienza delle fonti e la presenza di eventuali interessi economici e politici che possano determinare certe affermazioni o certe omissioni. Nel caso cinese, è tuttavia ulteriormente opportuno far conoscere agli studenti che esiste un controllo esercitato dalla politica sulle fonti scientifiche, oltreché sull’informazione in generale; aspetto peculiare da non dare per scontato sia conosciuto dalle più giovani generazioni.

3. Sulla questione di come comportarsi di fronte ai temi cosiddetti “sensibili”, ritengo sia importante incoraggiare lo studio di qualunque argomento possa avere un interesse scientifico e sociale, promuovendo, anche tra gli studenti, i valori fondanti la ricerca scientifica in Italia e in Europa, in base ai quali non possono esistere argomenti “sensibili”.

4. In merito alla delicata questione dell’azione degli Istituti Confucio e della cooperazione in altri programmi di ricerca, come cercherò di spiegare meglio in seguito, il dibattito appartiene per certi versi al passato. Vi è un indubbio interesse generale in Europa e in Italia ad approfondire la conoscenza di quella parte del mondo che appare come la più dinamica e strategica per le sorti dell’umanità nei prossimi decenni (prima che altri continenti prendano il sopravvento demografico ed economico). Che la Cina possa promuovere con gli strumenti che ritiene più opportuni la propria cultura ed il proprio soft power all’estero è da considerarsi naturale, legittimo e per certi versi doveroso.

Il problema delle attività degli Istituti Confucio potrebbe essere considerato già solo sotto il profilo della mancanza di reciprocità, per analoghe istituzioni europee, nel poter perseguire le proprie analoghe mission in Cina. In effetti, le criticità sono state amplificate dal contesto di disinvestimenti pubblici nel settore dell’università cui si è assistito in Europa e soprattutto in Italia negli ultimi decenni. Alla richiesta di maggiore conoscenza della Cina avanzata dalla società, soprattutto dopo l’entrata della Cina nella WTO, non ha fatto fronte una proporzionale volontà di investire risorse pubbliche, ha anzi fatto comodo che a finanziare questa necessità strategica fosse la Cina stessa, soprattutto tramite gli Istituti Confucio. Tutto naturalmente ha un prezzo. Il nuovo contesto economico e geopolitico è tuttavia mutato e la consapevolezza di dover investire risorse proprie nel sistema universitario e della ricerca sulla Cina si è fatto più chiaro in Europa; ora speriamo anche in Italia. 

5. Se, a partire da Next generation EU, sembra si possa di nuovo contare su “risorse proprie” (mentre quelle cinesi immesse nel nostro sistema universitario appaiono in diminuzione), è importante fare in modo che la ricerca dei sinologi abbia una presenza e un impatto interdisciplinare in tutti i domini accademici e dunque nella società nel suo complesso. Per fare questo la sinologia italiana si deve mostrare competente (e questo certamente lo è) ma anche non-dipendente da fonti di finanziamento della Cina continentale (né da altre fonti extra-UE). In un mondo complesso come quello di oggi, la Cina non può essere conosciuta solo tramite le lenti dei sinologi, ma la conoscenza della Cina non può fare a meno dei sinologi. Parafrasando Confucio, “conoscere solo la cultura cinese è fatica sprecata. Occuparsi di Cina senza conoscerne la cultura è pericoloso.”

III. Vorrei infine provare a declinare la riflessione sui temi proposti dalla tavola rotonda, osservando la questione delle ‘sfide, problemi e opportunità della sinologia oggi’ dalla prospettiva della tutela degli interessi delle istituzioni universitarie nazionali e dei sinologi italiani.

Negli ultimi anni, il dibattito è stato catturato dall’attività della rete degli Istituti Confucio ed il condizionamento che porrebbero alla libertà accademica, segnatamente negli insegnamenti sinologici. Vi è tuttavia, a mio giudizio, un pericolo ancora maggiore che corre la sinologia europea e proviene dagli annunciati investimenti diretti cinesi nel settore dell’istruzione universitaria in Europa.

Il caso finora più noto è quello dell’Università Fudan che ha deciso di aprire una propria, prima, sede europea a Budapest in Ungheria. Altri progetti, alcuni dei quali potrebbero interessare anche l’Italia, ‘bollono in pentola’, rallentati più dai due anni di pandemia che da riflessioni strategiche sulle criticità che tali investimenti possono ingenerare.

Se è vero che il progetto della Fudan a Budapest ha suscitato una forte opposizione, questa appare soprattutto da mettere in relazione alle risorse pubbliche che il Governo di Orban metterebbe a disposizione per realizzare il progetto, e alla chiusura contestuale della Central European University del magnate Soros e alla significativa posizione del Sindaco di Budapest che, in segno di opposizione a Orban e al suo progetto, decide di intitolare le strade attorno al campus ai più famosi dissidenti cinesi. Molto meno rilevanti appaiono considerazioni sulle condizioni di level playing field con le istituzioni universitarie europee e sulla sussistenza di condizioni di reciprocità per gli investimenti diretti nei due mercati.

Tali investimenti, a differenza degli Istituti Confucio, non seguono un approccio di collaborazione con la sinologia e il sistema accademico europeo, ma una logica di aperta concorrenza con le istituzioni universitarie europee, segnatamente nei confronti degli insegnamenti sinologici. Si tratta di una criticità nuova e seria le cui conseguenze non sono ancora misurabili ma, tuttavia, certe. Un problema che dovrebbe essere affrontato innanzitutto in sede europea.

Il settore economico della formazione universitaria cinese, sembra aver individuato nell’Ungheria il Paese europeo che possa offrire le condizioni normative e politiche più favorevoli per entrare nel mercato europeo, sfruttando le regole del mercato unico europeo per allargare poi la propria presenza in tutti i 27 paesi dell’Unione, così come il Lussemburgo fu il ’cavallo di Troia‘ che ha consentito una agile apertura di filiali di banche cinesi in tutti i paesi europei, senza che i nostri istituti di credito potessero operare alle stesse condizioni in Cina.

Senza entrare qui nel merito se il settore della formazione universitaria possa essere considerato un settore sensibile dal punto di vista degli interessi e della sicurezza nazionale (come ad esempio la difesa, le telecomunicazioni, i semiconduttori, i media, etc.), ma constatando comunque che in Cina tale è considerato dal momento che sono vietati investimenti diretti nel settore ai soggetti stranieri, occorre chiedersi se, in mancanza del rispetto del principio di reciprocità, tale concorrenza delle università cinesi a quelle europee, sia almeno leale.

A tale ultimo riguardo, le criticità degli investimenti cinesi nel settore della formazione universitaria in Europa potrebbero, ad esempio, essere valutate alla luce della disciplina cinese (Exit and Entry Administration Law) che vieta dal 2013 lo svolgimento di tirocini a studenti stranieri in Cina, a meno che non siano iscritti a università cinesi o che non vi siano accordi bilaterali in materia. Inoltre, anche nell’ottenimento di un visto di lavoro dopo la laurea gli studenti iscritti alle università cinesi sono favoriti rispetto a quelli laureati in università straniere.

La questione dello svolgimento dei tirocini in Cina per gli studenti italiani era stata già sollevata al governo cinese (almeno a partire dalla visita di Stato in Cina del 2017) ma non ha trovato ancora un esito positivo (complice il fatto che in Italia la normativa non prevede discriminazioni basate sulla nazionalità dell’università di iscrizione).

In sintesi, senza un accordo sui tirocini e rebus sic stantibus, gli studenti di cinese di una università italiana non hanno la possibilità di svolgere legalmente periodi di tirocinio in Cina ed hanno anche una maggiore difficoltà ad entrare nel mercato del lavoro cinese rispetto a chi si può permettere di iscriversi ad una università cinese (in Cina ma presto anche in Europa) con una evidente distorsione della concorrenza dell’offerta formativa tra i due paesi.

Si tratta di una condizione di mancanza di reciprocità e di concorrenza sleale potenzialmente letale per il futuro della sinologia europea e italiana, a cui pure occorre prestare attenzione e cominciare a riflettere, anche in banali termini di difesa dei propri interessi di categoria.

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