di Daniele Brigadoi Cologna

Nel 2005, Geremie Barmé ha proposto lo sviluppo di una “nuova sinologia”, intesa come insieme disciplinare dinamico che, a partire da una robusta base di competenze nella lingua cinese classica e moderna, incoraggi un atteggiamento ecumenico nei confronti di una ricca varietà di approcci e di discipline, tanto di carattere empirico, quanto maggiormente orientate al lavoro teorico. Una prospettiva che fonderebbe dunque il curriculum classico (filologico-letterario) degli studi cinesi con quello eclettico e contemporaneistico degli studi d’area, che tradizionalmente attinge alle scienze sociali e politiche (antropologia, sociologia, economia, scienza politica, diritto ecc.) per costruire l’insieme di saperi e di competenze atto a favorire una migliore comprensione della Cina moderna e contemporanea. Gli studi cinesi in Italia si vanno da diverso tempo aprendo a un’evoluzione simile, benché tale sviluppo non si sia, per ora, necessariamente coagulato attorno a un progetto organico e condiviso. Non ci sono dubbi sull’attualità e la rilevanza cruciale della proposta di Barmé per favorire, tanto a livello specialistico quanto a quello divulgativo, una percezione più ampia, profonda e argomentata dell’oggetto di studio “Cina”, dato il peso economico, politico e culturale che quest’ultimo assume oggi. Un paese che si scopra povero di risorse umane qualificate capaci di comprendere la Cina da una molteplicità di punti di vista, avvalendosi di un sapere sinologico variegato e “ben temperato”, è destinato a subire il XXI secolo, invece di contribuire a costruirlo.

Al cuore di qualsiasi progetto formativo di questo tipo, in ogni caso, deve esserci una solida preparazione linguistica. La prima radice di qualsivoglia competenza sinologica, comunque altrimenti declinata, non può infatti prescindere dal grado più elevato possibile di padronanza linguistica rispetto al cinese moderno e, auspicabilmente, da una buona base di cinese classico. Considerata la numerosità dei programmi di insegnamento della lingua cinese in seno al sistema educativo italiano, un potenziamento delle capacità linguistiche che possa coniugarsi efficacemente, in itinere, allo sviluppo di competenze ulteriori, appare a portata di mano. In Italia la lingua cinese si insegna in poco meno di quattrocento scuole medie superiori, che ogni anno diplomano oltre settemila studenti con alle spalle da tre a cinque anni di preparazione linguistica, circa 500 nella sola Lombardia. Considerato che oltre quaranta atenei italiani offrono corsi di lingua cinese, una quota di questi diplomati è presumibile che opti di proseguire lo studio del cinese anche all’università. Tuttavia, è difficile capire quanti siano coloro che lo fanno, come pure quanti siano coloro che ogni anno completano con successo un ciclo di studi triennale o magistrale in lingua cinese. Le ricerche o survey che cercano di fare il punto sulla situazione dello studio della lingua e della cultura cinese in Italia sono tuttora episodiche e quelle pubblicate negli ultimi vent’anni hanno adottato metodologie differenti, non sempre perfettamente confrontabili. È un peccato, perché per lo sviluppo della sinologia italiana questi sono dati che sarebbe auspicabile poter raccogliere e monitorare con maggiore precisione lungo tutto il percorso formativo, dalla scuola dell’obbligo alla laurea magistrale. L’impegno profuso da un numero crescente di docenti tanto nella scuola quanto nell’università, anche in ragione di un interesse per carriere formative connesse alla Cina acuitosi enormemente negli anni duemila e duemiladieci, ha contribuito a fare dell’Italia uno dei paesi europei dove si studia maggiormente il cinese. Quando, nel 2010, venne introdotta la nuova versione dell’esame di certificazione linguistica HSK su sei livelli (assai discutibilmente equiparati ai livelli CEFR), il nostro paese si distinse da subito come quello che in Europa conseguiva il maggior numero di certificazioni HSK.

Il problema, però, è che la stragrande maggioranza di queste certificazioni – secondo i dati resi pubblici da Hanban, che purtroppo si fermano al 2012 – tende a gravitare al di sotto del livello HSK 5, caratterizzato da un lessico di riferimento di appena 2.500 parole e di poco meno di 1.700 caratteri. La stragrande maggioranza dei laureati in cinese del triennio, tuttavia, raramente giunge a consolidare anche soltanto tale livello (ufficialmente equiparato a un C1, ma in realtà più vicino a un B1), che è assai lontano dalla padronanza piena. Chi ha studiato cinese per cinque anni alle superiori, di norma, consegue un livello HSK 4 (realisticamente assimilabile a un A2), ma una volta iscritto all’università, salvo rarissime eccezioni, si ritrova costretto a ricominciare l’intero percorso formativo da capo, perché quasi nessun ateneo italiano offre un percorso avanzato al triennio. La maggior parte di quegli oltre settemila giovani che si sono formati nello studio del cinese alla scuola dell’obbligo, potrà dunque ritenersi fortunato se consoliderà il livello raggiunto in uscita, oppure raggiungerà un livello appena superiore. Chi frequenta una magistrale in cui può continuare a studiare il cinese, generalmente è tenuto a dimostrare una competenza-soglia pari all’HSK 4, che nel corso del biennio potrà migliorare (anche sensibilmente, per esempio se potrà compendiare lo studio in Italia con prolungati soggiorni studio in Cina), ma che difficilmente supererà il livello massimo certificato da Hanban. Sono infatti tuttora pochissimi (sarebbe bello poter sapere con esattezza quanti, ma verosimilmente si tratta di poche decine all’anno) coloro che al termine del triennio o del biennio riescono a certificare un livello HSK 6. È bene sottolineare che questo livello corrisponde appena a un livello B2 del CEFR.

Per quale altra lingua straniera, nell’università italiana, si accetta che il livello in uscita prefigurato dal programma del primo e secondo ciclo universitario (triennio+magistrale) sia un semplice B2? Ora, un buon B2 in cinese è certamente una competenza di tutto rispetto e apre senz’altro a un’ampia gamma di impieghi in ambito professionale e di ricerca, ma di fronte alle sfide poste dalla crescente complessità culturale, politica, economica e sociale della Cina e dell’impatto considerevole che esprime anche a livello internazionale, non è forse giunto il momento di puntare più in alto? Il nuovo sistema di certificazione della competenza linguistica proposto dal Ministero dell’Istruzione cinese, il cosiddetto HSK 3.0, propone per il livello C2 un lessico di riferimento che conta 11.092 vocaboli, un vocabolario assai più realistico per tale livello rispetto ai 5.000 vocaboli richiesti dall’HSK 6 versione 2010. L’esperienza insegna che navigare un testo complesso, che si tratti di letteratura moderna o di un articolo accademico, è impresa piuttosto ardua e – soprattutto – altamente time consuming se si dispone di un vocabolario di riferimento di soli 5.000 vocaboli. Anche il processo di acquisizione naturale della lingua, che implica quantomeno il riconoscimento fonetico di ciò che si legge o si ascolta, per poi desumerne il significato dal contesto, è severamente compromesso se non si dispone di un lessico di base che si aggiri attorno alle 12.000-15.000 parole. Chi attinge professionalmente alle fonti originali cinesi, dunque, è costretto alla costante costruzione di glossari dedicati, al “carico e scarico” mnemonico del vocabolario specialistico necessario per gestire un certo tipo di testi o di situazioni comunicative. È una situazione che si può gestire, anche grazie all’ausilio di strumenti tecnologici sempre più sofisticati (software di traduzione basati su algoritmi di machine learning avanzatissimi, dizionari elettronici sempre più vasti e di facile impiego, ecc.), ma di certo non rappresenta l’ideale a cui tendere.

La meta auspicabile per un programma di insegnamento della lingua cinese coerente con le esigenze del nostro tempo è il livello C2 in uscita dal primo e secondo ciclo universitario. Porre questa meta non significa, ovviamente, che tutti gli studenti che vi si cimentino possano riuscire a conseguirla, ma significa costruire un sillabo che la renda potenzialmente conseguibile. Con i limiti di organico e di ore di apprendimento guidato a disposizione per le lingue straniere nei nostri atenei, non è certo una sfida semplice. Un buon punto di partenza, aldilà di quel potenziamento in termini di personale e di punti organico che a medio termine diventerebbe in ogni caso imprescindibile, potrebbe essere una migliore integrazione tra l’insegnamento del cinese nelle scuole superiori ed i corsi proposti nel primo e secondo ciclo universitario. Questo consentirebbe, nella migliore delle ipotesi, di poter contare su di un arco complessivo di insegnamento del cinese della durata di dieci anni, garantendo a chi si presenta al triennio o al biennio con livelli di competenza linguistica certificata pari all’A2-B1 l’accesso a programmi di apprendimento avanzati, commisurati alla certificazione raggiunta. Così accanto a un triennio “base”, con livello-bersaglio B1-B2, si potrebbe offrire un triennio avanzato con livello-bersaglio C1-C2. Questo avrebbe in poco tempo effetti virtuosi anche sul percorso del biennio, che oggi – per quanto riguarda la lingua – rischia spesso di migliorare solo di poco le competenze conseguite durante il triennio. A cascata, gli effetti sarebbero percepibili anche a livello di dottorati, perché competenze linguistiche più robuste rimuoverebbero eventuali ostacoli legati all’accesso al materiale in lingua originale, comprimerebbero i tempi di lettura, faciliterebbero il vaglio di documenti d’archivio e della letteratura di riferimento.

Gli effetti di un’innovazione in questo campo, incentrata sullo sdoppiamento in corsi di livello base e avanzato in buona parte dei corsi di laurea che offrono lo studio del cinese, si farebbero sentire anche nell’ambito degli studi d’area, per i quali il rafforzamento delle competenze linguistiche è questione particolarmente complessa, dato che spesso lo studio del cinese si affianca a quello di discipline non necessariamente congruenti con gli studi sinologici e il tempo disponibile per approfondire la preparazione linguistica e culturale nel corso del primo ciclo universitario può essere più circoscritta.

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