di Marco Fumian

La tavola rotonda come dice la call ha come premessa la consapevolezza che le vicende storiche degli ultimi anni – l’ascesa globale della Cina di Xi Jinping, le tensioni crescenti con gli Stati Uniti e progressivamente con larga parte del cosiddetto “mondo occidentale” e non solo – stanno producendo, e verosimilmente continueranno a produrre, delle profonde trasformazioni nei rapporti fra i paesi del suddetto mondo occidentale e la Cina, e siccome queste trasformazioni per ovvie ragioni ci toccano direttamente, professionalmente e anche umanamente, è quanto mai importante cercare di stimolare il più possibile delle discussioni e delle riflessioni, magari cercando anche di proporre delle soluzioni pratiche, per rispondere nel migliore dei modi a queste trasformazioni, sia dando il nostro contributo intellettuale per capire meglio che cosa succede – e perché no provare anche nel nostro piccolo a indirizzarlo –, sia cercando di capire in che modo queste trasformazioni stanno impattando e impatteranno sul nostro campo di studi e di insegnamento. 

Naturalmente è difficile prevedere adesso come si evolveranno questi rapporti, in quale direzione andranno le trasformazioni in atto; nonostante ciò, io credo che si possa ragionevolmente affermare che quel paradigma dominante che ha alimentato l’espansione degli scambi con la Cina, e di conseguenza l’espansione degli studi cinesi in Italia e non solo negli ultimi vent’anni e oltre – ovvero il paradigma de “la Cina come opportunità”, in cui a incoraggiare la crescita degli scambi, e così anche delle immatricolazioni all’università, è stato soprattutto l’obiettivo del beneficio economico, sia a livello di espansione degli affari commerciali, sia a livello di accrescimento delle opportunità lavorative personali – sia ormai entrato in crisi, vuoi per le divergenze politiche e culturali che ormai nella situazione attuale sembrano diventate insuperabili, vuoi per i profondi riassestamenti che sembrano essere in corso per quanto riguarda i flussi economici globali, e mi sembra francamente assai difficile che le dinamiche delle nostre relazioni con la Cina potranno riprendere e andare avanti dopo la pandemia esattamente come prima, business as usual come si suol dire. Se quello che dico è vero, allora ciò significa che è probabilmente arrivato il momento non solo di rivedere i nostri approcci personali nel confrontarci con la Cina, ma anche e soprattutto di ripensare, più in generale, le visioni e gli obiettivi di fondo che guidano lo studio e l’insegnamento universitario del “cinese” in Italia.

Come vedete si tratta di questioni molto ampie, ma, proprio per questo, ci sarebbe bisogno di una discussione ampia, nutrita da molti interventi, in maniera tale che ognuno di noi offra le proprie riflessioni e punti di vista sulla base delle proprie esperienze personali, così da definire meglio la natura delle problematiche che ci coinvolgono e magari elaborare delle idee condivise su quanto si dovrebbe e potrebbe fare. Io nello specifico non ho idee molto precise, né tantomeno proposte concrete da fare, e quindi mi limito a sollevare solamente, e brevemente, due punti che mi sembrano centrali, sulla base delle mie esperienze e riflessioni recenti, enunciandoli come problemi specifici che secondo me meriterebbero di essere discussi, provando anche a immaginare assieme a voi che cosa potrebbe fare l’AISC, in quanto associazione che raccoglie la maggior parte degli studiosi e insegnanti che si occupano di Cina in ambito accademico in Italia, al riguardo.

La prima questione riguarda l’argomento che è stato in parte già toccato, anche se non ancora sufficientemente sviscerato, del “come” parlare di Cina oggi – e “a chi”, potremmo aggiungere. La premessa fin troppo ovvia è che l’ascesa globale della Cina, la crescita della sua influenza economica, politica, e, vorrei sottolineare, perché questo secondo me di solito viene sottovalutato, anche culturale, che è una novità degli ultimi anni, ha imposto non solo di conoscere in modo molto più approfondito e diffuso le visioni e le pratiche che improntano la vita sociale della Cina di oggi, ma anche di studiare e di interrogare le implicazioni di tale ascesa per le nostre stesse società, esaminando la natura e l’impatto delle visioni e delle pratiche che la Cina porta con sé nella sua espansione mondiale, nel contempo interrogando, attraverso il confronto, anche la natura e le dinamiche, con le loro aspirazioni e i loro limiti, del nostro vivere sociale. Come già si osservava nella call, l’interesse pubblico nei confronti della Cina in Italia negli ultimi anni è senz’altro cresciuto, sebbene tuttora la trattazione della Cina nella nostra sfera pubblica fatichi ancora a trovare dei livelli di sofisticazione adeguata, anche perché non sempre il discorso sulla Cina, soprattutto a livello mainstream, è portato avanti da esperti con una preparazione e delle competenze specifiche sulla Cina. Un problema particolarmente cruciale, oggi, è quello della radicale politicizzazione che tende a investire le rappresentazioni della Cina contemporanea – il fatto come già si è osservato che il discorso sulla Cina di oggi è sempre più dominato da narrazioni ideologizzate che non di rado risentono dell’influenza diretta della propaganda politica. Da un lato quindi abbiamo questo nuovo paradigma del “conflitto fra democrazie e autocrazie”, che rischia di far regredire, piuttosto che migliorare, le conoscenze della nostra società sulla Cina e sulle sue molteplici realtà, producendo visioni monodimensionali, essenzializzanti, riduzioniste, prive di empatia, in cui la Cina e i cinesi sono ricacciati perpetuamente nel loro ruolo di “altro” di un“occidente” che si autopromuove e si autoassolve suggellando la status quo consolidato. Dall’altro, invece, si è diffuso negli ultimi anni, in internet ma anche attraverso non poche pubblicazioni editoriali, un discorso sulla Cina che tende a riverberare se non addirittura a ricalcare in modo fedele le narrazioni propagandistiche del governo cinese, un fatto che forse ad alcuni sembrerà trascurabile se non risibile, ma che a me invece sembra potenzialmente molto pericoloso, visto che si tratta di una propaganda che fa leva sul malcontento per i fallimenti dei sistemi democratici “occidentali” per diffondere per contrasto una narrazione acritica, edulcorata, e finanche apologetica della Cina come “modello” alternativo positivo, una narrazione che quindi può effettivamente attecchire nella nostra società, come in parte è già successo nel passato, nei momenti in cui più forti sono le spinte populiste, se non autoritarie, che cercano di cavalcare questo malcontento. 

Date queste premesse, penso che si possa facilmente concordare sul fatto che, in questo contesto, chi si occupa di Cina in ambito accademico potrebbe senza dubbio dare un contributo prezioso, concorrendo ad arricchire e a migliorare le conoscenze e le discussioni sulla Cina contemporanea non solo nelle aule universitarie ma anche nella sfera pubblica, fornendo per esempio migliori storicizzazioni degli scenari cinesi del presente, disamine più ampie delle strutture sociali e rappresentazioni culturali in cui si articola la vita sociale della Cina contemporanea, strumenti d’analisi più sofisticati utili a decostruire le narrazioni dominanti e la propaganda, più accurati confronti delle somiglianze e delle differenze delle attuali realtà sociali cinesi e occidentali fuori dalle dicotomie e delle essenzializzazioni dominanti, etc. Se questa è un’osservazione probabilmente abbastanza condivisibile, a prescindere che uno sia più o meno propenso a partecipare alla crescita del dibattito pubblico sulla Cina in Italia, il punto su cui vorrei soffermarmi è che tale partecipazione, oggi, tende a essere significativamente frenata da degli ostacoli oggettivi, nella misura in cui le strutture che indirizzano il nostro sapere universitario, dagli orientamenti della didattica (prevalentemente incentrata sul training linguistico da un lato e sulla trasmissione del patrimonio storico-umanistico della civiltà cinese dall’altro, a discapito delle discipline e dei metodi utili a esaminare gli sviluppi storico-sociali e culturali del mondo contemporaneo), ai meccanismi normativi della ricerca (che favorisce in un’ottica competitiva lo sviluppo di uno specialismo settoriale destinato all’“internazionalizzazione”, e quindi non a un pubblico “nazionale”), tendono a scoraggiare, in maniera sottile ma persuasiva, questo tipo di intervento. Per questo credo che sarebbe utile provare a fare qualche riflessione sui meccanismi di queste strutture e sulle influenze pratiche che essi esercitano, cercando nel contempo di lavorare da un lato per potenziare forme di conoscenza che sappiano coniugare i saperi filologici e gli sguardi umanistici con i metodi e gli oggetti di ricerca delle scienze politiche e sociali, e dall’altra per valorizzare forme di ricerca non solo orientate allo specialismo ma anche dotate di una valenza per così dire più sociale. In particolare, un punto su cui occorrerebbe concentrarsi è quello della formazione dei giovani, che bisognerebbe incoraggiare a diventare certo specialisti bravi, ma con uno sguardo ampio sul mondo, capaci di coniugare metodi scientifici rigorosi e visioni etiche e sociali consapevoli, aiutandoli a coltivare sin dall’inizio della loro carriera un doppio binario di scrittura, specialistica da un lato e civile dall’altro.

Il secondo problema che pongo è che paradossalmente, proprio nel momento in cui diventa più importante discutere pubblicamente della Cina, interrogando le implicazioni della sua ascesa globale in modo aperto e nello stesso tempo critico, tutto ciò diventa in realtà molto più difficile. Molti hanno fin qui sostenuto che il governo cinese a differenza degli Stati Uniti non vuole esportare il suo “modello” all’estero, però intanto abbiamo visto come il PCC abbia già da tempo cominciato a esportare, quando ne ha la facoltà, i meccanismi con cui controlla e sorveglia la produzione del sapere in patria, per esempio vincolando i rapporti di cooperazione “mutuamente vantaggiosa” con la Cina alla condizione di non esternare alcuna critica sulle questioni politiche “controverse” che il governo cinese ritiene insindacabili. Questa tendenza censoria, acuitasi negli ultimi anni, ha avuto un upgrade con il varo della Legge sulla Sicurezza Nazionale di HK, e ha conosciuto una delle sue ultime “escalation” – come hanno scritto gli oltre 400 studiosi britannici e non che hanno sottoscritto una lettera al Times per protestare contro le sanzioni comminate alla studiosa Jo Finley Smith – quando nell’aprile scorso il governo cinese ha sanzionato anche degli studiosi privi di affiliazioni politiche come ritorsione alle sanzioni comminate da Unione Europea e Regno Unito ad alcuni funzionari cinesi. Tutti siamo d’accordo, io credo, che l’engagement con la Cina sia un’opzione non solo preferibile ma necessaria, perché gli studiosi non possono aderire alla logica della guerra fredda, ed è perciò tanto più necessario perseverare nel promuovere gli scambi culturali al fine di espandere le conoscenze reciproche e il dialogo, in un ottica di progresso condiviso, anche contribuendo a riumanizzare la realtà cinese laddove la “freddezza” delle tensioni politiche odierne tendono a disumanizzarla. Tale engagement, però, non può non essere un engagement critico, non può sorvolare sulle zone d’ombra che l’ascesa cinese porta con sé nel mondo, né può svolgersi in una condizione di pressione, anche solo psicologica, costruita all’interno di relazioni di potere asimmetriche. Il problema, però, è che gli studiosi non possono confrontarsi efficacemente, ed eventualmente contrapporsi, a una simile pressione facendolo solamente sulla base di un’iniziativa personale. Ci sarebbe bisogno, perciò, di approntare dei meccanismi istituzionali e simbolici efficaci, tesi a garantire l’autonomia e la trasparenza nei rapporti di collaborazione, sottraendoli all’eventuale influsso anche sottile della propaganda o della censura, anche al fine di mettere nelle condizioni migliori per fare “ricerca” anche chi si occupa di temi controversi e sensibili, e così da evitare che il nostro campo di studi nel suo insieme, data la difficoltà di affrontare certe questioni problematiche, tenda a slittare impercettibilmente verso aree di ricerca meno controverse politicamente ma per questo anche meno rilevanti. 

E qui concludo chiedendomi, e chiedendovi, che cosa può fare l’AISC in tutto questo. L’AISC è un’associazione scientifica di studiosi con un’anima variegata caratterizzata da sensibilità e opinioni diverse, per cui non può costituire, si è detto, una “voce” politica e istituzionale. Però l’associazione, proprio per questa sua ricchezza di sensibilità e opinioni, può farsi viceversa promotrice e incubatrice di iniziative di riflessione e discussione che aiutino il nostro campo di studi ad arricchirsi, orientarsi ed evolversi anche procedendo nella direzione suggerita dalle sfide che ci vengono poste oggi dal nostro tempo. Pertanto, oltre ai canonici convegni biennali e ritrovi annuali, l’AISC potrebbe anche proporre e organizzare convegni ad hoc e tavole rotonde su temi specifici di una particolare rilevanza per l’operare del nostro campo di studi. Potrebbe perfino trattarsi, per esempio, di un convegno sul “futuro degli studi cinesi nel post-pandemia”. Nello stesso tempo, l’AISC potrebbe anche portare avanti delle piccole ma significative iniziative di formazione, per esempio organizzando seminari rivolti ai dottorandi, ai giovani ricercatori e insegnanti alle prime armi, ma anche agli insegnanti delle superiori, per sensibilizzare sulle problematiche politiche, ideologiche, e metodologiche in senso ampio relative alla produzione del sapere odierno sulla Cina, così da diffondere una maggiore consapevolezza sulla complessità del discorso pubblico sulla Cina, e nello stesso tempo sul suo rilievo per la nostra sfera pubblica. E potrebbe anche, infine, contribuire a esprimere pareri, proposte, dichiarazioni pubbliche etc., come per esempio fanno già alcune associazioni di altri paesi (come la BACS inglese o la AAS americana), in risposta alle questioni urgenti e ai problemi strutturali che rischiano di impattare sull’autonomia e sulla libertà della ricerca accademica sulla Cina.

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